Salons di Stendhal

Nelle cronache pubblicate da Aragno («Salons», pp.191, euro10), Stendhal abbandona l’igiene stilistica dei romanzi per creare attriti più potenti. Il primo “pezzo” riguarda la fiera dell’arte parigina del 1822. Il romanziere, di ritorno da un lungo soggiorno milanese, attacca frontalmente l’opacità virtuosistica: «50 mostre per un totale di 25.000 pezzi, dei quali 250 sono stati proclamati capolavori immortali. Dove si trovano oggi quei capolavori? Allo stesso indirizzo dove si troveranno, tra dieci anni, i venti prodigiosi dipinti dell’Esposizione di cui mi occupo. Perché?», perché si fa dell’arte «una questione di orgoglio». La morale non è indifferente: certa critica si configura come «forma impropria di promozione». Stendhal cerca, nell’«assordante mediocrità» della mostra, qualche gesto autentico, per concludere: «non si riscontra altro che niaiserie, o vacuità, e una complessiva debolezza… Per avere successo, oggi, si deve colorare ogni cosa, anche le foglie», ma «non è il mestiere a difettare, né quel genere di eccellenza legata al lavoro paziente… ben esili sono gli indizi del genio… non è altro che la conseguenza della mancanza di audacia che oggi caratterizza i nostri pittori e poeti. Il demone della paura, l’esagerato timore delle critiche li annichilisce», mentre «non erano certo questi i sentimenti che ispiravano Paolo Veronese». Il critico si è sostituito all’artista.

La parte centrale raccoglie molti interventi sul Salon del ‘24. Disinvolto e appassionato, quasi sperimentale, Stendhal ci accompagna per le sale del Louvre schierandosi con l’arte nuova, coi refusé, contro i classicisti. Esplicito il metodo: «mi sono ben guardato dall’acquistare l’opuscolo... Volevo che i miei occhi, indipendenti da vane reputazioni, non fossero attratti che dal merito. Ecco il principale difetto che mi rende sgradito nel mondo, soddisfatto della mia umile fortuna, colmo d’orgoglio e senza chiedere nulla, non risparmio che ciò che amo, e non amo che il genio. Perdonatemi; amo i giovani pittori che hanno del fuoco». Stroncature eccellenti (Constable, Vernet) alternano qualche sopravvissuto: Poussin, Canova e Hayez, in un sistema di lucide intuizioni. Chi giudica preferisce un «giovane candidato, se costui lavora secondo la sua maniera, ma il genio non imita alcuno, e meno che meno gli accademici». Non è questione di eleganza: «gettate in prigione l’uomo più ordinario, ditegli che riavrà la libertà se sarà in grado d’esporre una figura nuda... Sarete stupitissimi di vedere il prigioniero ritornare in circolazione in due o tre anni».

Infine, nell’ultimo saggio, ci da qualche consiglio: «non leggere mai le chiacchiere sulle arti, scritte, in gran parte, da gente senza una missione, ovvero che non ha mai dipinto un brutto quadro… la ripetizione è la figura retorica prediletta, per questo assistiamo all’affermazione di tanti grandi, sostenuti da trenta articoli». Inoltre, «l’ammirazione senza discernimento perfino di Raffaello» educa dei «cattivi pittori», animati da un sinistro «spirito di consorteria», da un «impulso artificiale». La conclusione è una teoria economica della mediocrità: le informazioni inutili riducono lo spazio che la memoria può concedere alla conoscenza.

“Gazzetta di Parma” 9-8-06

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