Meridiano Raboni

Per comprendere la visione tutta umana del divino, come la ritroviamo nel Meridiano che raccoglie tutta l’opera di Giovanni Raboni, possiamo riferirci alla pittura, risalendo fino al Magnasco e, prima ancora, a quel clima di controriforma lombarda influenzata a Brescia dal Moretto e a Bergamo dal Moroni. Lo spazio della scena abbandona le prospettive rinascimentali e lascia che sia il gesto umano a delimitare i luoghi, gli spazi abbandonati e disadorni, i depositi, i cunicoli. Le classi morte rappresentano l’agonia dello spazio, sono archetipi corali in cui trovano un contrappunto le vicende più intime.

Gesta Romanorum si appropria della tradizione evangelica per trasfigurarla, per restituire una divinità assolutamente fisica, colta per dettagli, a pezzi: una fede che è «pietra o coltello», un battesimo che diventa «violento scorpione». La notte è misurabile («l’ambiguo / lume di luna che confonde / il protocollo dei marmi») e i morti-reporter, protagonisti del primo libro, ritornano a intermittenza. Quei borghesi trapassati che vedono passare il mondo in mano ai parvenu: «Se penso a chi è la gente ricca adesso, a cosa / gli costa il capitale,/ mi convinco che tutto si complica, anche il male». Senza mai diventare astratto, o concettuale, ci parla delle case umide sui navigli, chiedendosi se abbatterle servirà a qualcosa, perché il male – nero nucleo del mondo - «non era/ lì dentro, nelle scale, nei cortili... A me sembra che il male / non è mai nelle cose», opponendo l’intenzione al fatto. Da un punto di vista «mortuario», Raboni guarda al mondo attraverso gli occhi dei morti, per non subire i ritmi del sistema produttivo, per dare fiato ai versi e entrare nel fuori fuoco.

Il paesaggio crea spontaneamente l’allegato semantico, come nei pittori di quegli anni, nei panorami in movimento di Sironi, nei grandangolari sui tetti di Banchieri. Spazi di una città stratificata, fatta di ere sovrapposte che riaffiorano improvvisamente, e che è la Milano manzoniana degli untori quanto quella popolare dei navigli del dopoguerra. Le prose di Economia della paura – preziosa raccolta poi inclusa in Cadenza d’inganno - rientrano nel thriller: oggetti che si spostano, che, se anche domestici, perdono il loro potere rassicurante, consolatorio, per diventare sconci, deformi. Una metamorfosi giustificata, come in Bacon, dall’idea di riportare la realtà a essere «meglio del vero», perché niente sia sogno, e niente sia veramente veglia. Barlumi di storia chiude la parentesi della forma chiusa e propone spiriti che corrompono le cose come «spifferi», «giorni che cadono a pezzi» come vecchie persiane e «settimane uscite dai cardini». Ritornano i reporter abusivi, i morti, clandestini nel mondo dei vivi, in un presente continuo, «finalmente, senza futuro».

(Quotidiano La Provincia 17-12-06)

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