La poesia araba

Profezia e visione, sogno e meraviglia, magia e divinità sono gli elementi originali della poesia araba, e non solo di quella più recente. Dell’antica dolcezza classica rimane quella temperatura del verso che si fa fiaba. C’è chi sostiene che esistano due scuole poetiche nel mondo arabo, ma credo si tratti di una forzatura. Dicono che esiste una produzione siriana e libanese più fedele alla tradizione e ostile alle commistioni, a fianco a una più moderna e interculturale. Rima contro verso libero. Non è così, il rinnovamento della poesia araba comincia negli anni quaranta con una donna, Nazik al-Malaika, la quale, insieme a un altro iracheno, As-Sayyab, fondò il “Movimento letterario per il verso libero”. Il canto della pioggia di As-Sayyab è frutto di un incontro con Eliot e con la poesia occidentale. La lirica è stata, in effetti, l’ultima cosa a essere stata “contaminata” dall’Occidente, ma tale contaminazione iniziò con i “poeti dell’esilio” alla fine dell’Ottocento, con Kahlil Gibran. Negli anni sessanta fu invece proprio il Libano a accogliere la rivista “ribelle” e surrealista Sh’ir (poesia), fondata da Adonis. Ciò che rimane del salmo e del canto antico è una monorima ripetitiva, l’attitudine al poemetto, il patriottismo, la mistica, in un discorso insieme magico e razionale. La poesia araba con Adonis scopre il fascino della prosa. Dove ci sembra più distante, la letteratura araba, non è tanto nei temi, amorosi, politici o religiosi - così in fondo simili ai nostri - ma è nelle forme di una pronuncia che esplora il linguaggio dall’interno della tradizione, senza rotture. Spicca certamente un maggiore desiderio di liberazione dal represso, di illuminazione, ma la poesia araba recente inventa per ritrovare le sue stesse fonti. Ha avuto un sessantotto, con Adonis, ma nel suo nucleo è rimasta speciale, diversa dalla nostra. L’occasione per incominciare a conoscere questi versi può essere senz’altro l’uscita della bella raccolta di Adonis, Libro delle metamorfosi e della migrazione nelle regioni del giorno e della notte (Mondadori, 128pp. euro 9.40). “La meraviglia delle immagini... continuità che si muove a spirale e coinvolge nella sua musica e nei suoi colori, con passaggi di pacata limpidezza lirica e momenti di vertiginosa tensione”, scrive Maurizio Cucchi nel risvolto. Un libro emblematicamente arabo, lirico e geometrico (“congiungo il ramo alle coste”), immerso in “castelli di silenzio con porte che le parole ignorano”, tra “giorni che dimenticano se stessi... mentre le sorgenti cadono sul mio petto”, visionario come Blake, “risveglio l’acqua e gli specchi... la pagina delle visioni”, le visioni appunto, le magie di chi ha negli occhi deserti e minareti. Lo specchio è un dettaglio che ritorna, l’immagine stessa del poeta che riflette “ogni cosa” fino a mutare “forma alla voce e al richiamo”. Un testo forse programmatico ma interessante è questo: “scompaio/indago/vedo/oscillo/come la luce tra l’incanto e il segno”, dove il ritmo orientale esce trasfigurato in versi piani e misurati. Le figure del libro sono erbe, piante, spezie: “una famiglia di foglie d’albero” che “legge all’acqua il libro del fuoco”, o il “corteo degli alberi”, la ruggine; la mitologia dell’Eufrate, i poeti della tradizione: “venni a Baghdad/nei rami delle palme e nell’acqua del fiume,/nei polmoni del passero”; il “Falco di Quiraish”: “Quiraish.../perla che irradia da Damasco/celata dal sandalo e dall’incenso/tanto fine da intenerire il Libano/e bella da far parlare l’Oriente... e io sono là nello spazio dei grilli sotto le nubi... sono re, lo spazio è il mio tributo,/e i miei passi il mio regno... Falco nella nostalgia, nell’incertezza, tra il sogno e il pianto”. I paesaggi, lo abbiamo visto, sono quelli del deserto e del golfo, ma la tensione che attraversa il libro sembra essere quella tra l’uomo e la natura, e il “farsi natura del soggetto” (Cucchi), il diventare luogo del nostro corpo, che abita la geografia terrestre: “divento tuono, acqua e cose vive”. Versi dove gli spazi naturali e le regioni della mente si sovrappongono, aderiscono. Come in ogni libro arabo, l’amore è indagato e sedotto, lontano da ogni preconcetto, è descritto con delicatezza ma senza tentennamenti: “esploro la terra oscura nella mappa del sesso... col fuoco e col tatuaggio... attorno a me si riuniscono i giorni dell’anno/faccio di loro case e letti ed entro in ogni letto e in ogni casa”, col “dolore delle articolazioni, pulsazioni delle membra,/la geometria dei muscoli, la superbia dell’atto,/la contrazione, gli spasmi, il rilassamento,/la fluidità dei suoi sentieri, le sue ascese,/la facilità delle sue piste, le sue torsioni”. Apriamo una parentesi su un altro libro che tratta d’amore, La rosa di pizzo nero di Amjad Nasser (edizioni San Marco, Genova 2001). L’autore è un giordano che ha viaggiato per Palestina, Cipro e Europa e che attualmente vive a Londra dirigendo il più importante quotidiano in lingua araba stampato in Occidente. Il traduttore è lo stesso dell’ultimo libro di Adonis, Fawzi Al Delmi. Il poeta riscopre il corpo femminile abbandonando i tabù della classicità araba, cercando una soluzione originale; il corpo è carne senza essere solo piacere, è il libro in cui leggere qualcosa di più importante: “la rosa di pizzo nero/è in cima alla coscia/il bacio del re felice nella millesima notte/quando il serpente maculato scivola nell’umidità/a guardia del basilico”. Amore del ricordo, amore dei dettagli, amori “feriti” e “idee del bacio”; amore insonne e straniero. Sì, straniero, come straniera è molta della poesia araba contemporanea, scritta da autori costretti a abbandonare i loro paesi e a darsi a un esilio inesorabile. Anche Adonis, candidato più volte al premio Nobel e residente a Parigi, lucido saggista e profondo conoscitore della poesia, aveva pubblicato due anni fa Cento poesie d’amore (Guanda, 106pp. 11.00 euro). Qui il sentimento si mostrava senza enfasi, si offriva come mezzo di conoscenza, emergeva attraverso i suoi contrari: la sofferenza, l’odio, il tormento: “la cosa più bella di te sono le lacrime”. Nell’ultimo libro, invece, nomina dio e i suoi santi: “se mi vedi un’altra volta, non parlarmi”, mentre “un fuoco azzurro trapassa il cranio/passa alla radice delle ciglia/dove la mia terra si alza, fa un gesto e si china”, in una tensione verticale: “verso di voi, mie dimensioni, chiamo ciò che mi circonda”, “devo uscire dai miei nomi -/i miei nomi sono una stanza chiusa”. L’anima è una “pietra che mi rotola dentro”, il cielo è semplicemente “grande”. La potenza degli enigmi e la forza dei versi ricorda un giovane poeta sempre siriano non ancora tradotto, Ali Safar, che scrive: “mentre l’eco cade nel suo pronome”. Infine non possiamo non citare Nizar Qabbani, conosciuto nel mondo arabo per i suoi versi amorosi, ma edito da San Marco dei Giustiniani con un libro di carattere provocatorio, e Mahmud Darwish, palestinese pubblicato sempre da San Marco. Gli arabi non temono la lirica alla maniera degli antichi, ma la praticano con grande disinvoltura in una modulazione quasi corale, nella tendenza alla litania e al salmo fiabesco.

(Quotidiano La Provincia 7-12-04)

Commenti

  1. Carissimo....!
    Mi può aiutare a ritrovare una poesia perduta?
    L'ho letta tanti tanti anni fa...sono sicura che fosse 'poesia araba' e anche di autore ben noto....ma non l'ho mai ritrovata. Ricordo perfettamente: "E ora, o Re, donami un falco, le cui piume possano giocare con il vento del nord.
    Con quanto orgoglio lo alzerò nelle fredde mattine.... con quanto orgolgio lo guarderò cacciare...' poi più nulla, perduta negli scherzi della memoria. Gratitudine e auguri di una vita piena di poesia per sempre a chi mi può aiutare.....Valeria Giordani

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  2. Purtroppo non conosco il testo che cita, posso solo azzardare due suggestioni: Adonis e Darwish

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