Gomorra di Roberto Saviano

«Sono nato in terra di camorra, nel luogo con più morti ammazzati d’Europa, nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere. Dove tutto ha il sapore di una battaglia finale... In terra di camorra combattere i clan non è lotta di classe, affermazione del diritto, riappropriazione della cittadinanza. Non è la ripresa di coscienza del proprio onore, la tutela del proprio orgoglio. È qualcosa di più essenziale… Porsi contro i clan diviene una guerra per la sopravvivenza… E così conoscere non è più una traccia di impegno morale. Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora uomini degni di respirare». Quale migliore presentazione per un reporter di ventisette anni nato a Casal di Principe? Roberto Saviano studia i meccanismi criminali che appestano la sua città, prova a «comprendere gli elementi del disastro». Ha percorso, con la sua Vespa, le strade dello spaccio, ha seguito le mappe degli agguati, è entrato, «camminando con le mani in tasca e la testa appesa al mento», nella villa sequestrata al potente boss Cosimo Di Lauro, ha osservato da vicino e senza pregiudizi i ragazzini-soldato, la manovalanza dei clan. Saviano è un vero cronista, di quelli che dormono con la radio sintonizzata sulla stazione dei carabinieri, che arriva insieme a loro sulla scena del crimine, perché l’articolo conservi ancora l’odore del sangue, come le foto poliziesche di Weegee.

Ora è finito sotto scorta per il suo dettagliatissimo libro, Gomorra (Mondadori, pp.333, euro15,50), ha cambiato casa e cellulare, ma non ha perso il suo carattere. Rifiuta le avances di Matrix e Fazio, preferirebbe continuare a girare per i Quartieri Spagnoli. Da anni è impegnato nello studio del fenomeno criminale presso l’Osservatorio sulla camorra e sull’illegalità: «Non sono mai riuscito a sentirmi distante da dove sono nato, lontano dai comportamenti delle persone che odiavo... Nascere in certi luoghi significa essere come il cucciolo del cane da caccia che nasce già con l’odore di lepri nel naso». Per lui la guerra di Secondigliano è il «Vietnam» e le ragioni sono chiare: «La totale assenza di lavoro, l’impossibilità di trovare altra soluzione di vita che non sia l’emigrazione, rende i salari bassi, bassissimi. Non c’è altro arcano, non c’è da fare appello a nessuna sociologia della miseria, a nessuna metafisica del ghetto. Non potrebbe essere ghetto un territorio capace di fatturare trecento milioni di euro l’anno solo con l’indotto di una singola famiglia». Gli affetti diventano «mappe» per colpire l’avversario, mentre da ogni indizio emergono connessioni malavitose col mercato legale, perché il senso di tutto è sempre il denaro, e la paura non ha contorni.

Saviano è un romanziere manzoniano, la sua prosa è ruvida e incalzante, non ha «l’indolenza intellettuale di chi crede che la parola ormai abbia esaurito ogni sua risorsa capace solo di riempire gli spazi tra un timpano e l’altro». Possiede uno humour esistenziale, simile a quello del regista Sorrentino nel film Le conseguenze dell’amore.

(Quotidiano La Provincia 21-11-06)

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