Carteggio Luzi/Caproni

«Artista concreto, catturato dal particolare, sicuro della riserva di significato e di potere simbolico che ha ogni dettaglio del testo, Giorgio era un interlocutore piacevolissimo di non molte parole, incline spesso al mugugno, ma tutt’altro che chiuso alla meraviglia. E quell’amico ci manca molto».

Con questo ritratto si apre il prezioso carteggio Luzi-Caproni pubblicato da Scheiwiller. Nonostante la diversità del contesto - con Luzi inserito in un ambiente stimolante tra Parrochi, Macrì, Bo, Betocchi, e Caproni nella condizione di maestro elementare in una Liguria senza più Montale - fu proprio Caproni il primo a recensire La barca, riconoscendo al fiorentino il fascino di un verso musicale «che non esclude un senso di nostalgia acutissima». Scrisse Robert Walzer: «Chi non desidera avere un amico da potere amare e stimare! La vera amicizia è una scuola di sentimenti belli e delicati». Facile verificare i progressi paralleli dei due, i debiti di Caproni nei confronti del ritmo luziano, o la coincidenza delle rispettive svolte: Nel magma (1963-66) per Luzi e Il congedo del viaggiatore cerimonioso (1965) per Caproni, quando ha inizio la dissoluzione dell’io e la riscoperta del poemetto come forma drammatica. Ma nonostante tutto, le due figure rimarranno sempre distinte, poiché se Caproni desertifica la parola, Luzi la espande.

Oltre la biografia, il carteggio è un continuo confronto, con Caproni leggermente elogiativo e Luzi decisamente più netto: «Componimenti come Ad portam inferi traducono il dolore in una grazia e si capisce allora che il male entra nella storia a generare umile vita e riscatto da sé, trasparenza, luce». Una ricca appendice critica chiude la raccolta, ma ciò che attrae è l’energia speciale di questo rapporto: «sei uno dei pochissimi – scrive Luzi – che il tempo mi convince sempre più a ammirare come poeta genuino, casto, personalissimo, come amico impareggiabile».

Prima delle lettere, sempre nella collana PlayOn, è uscito di Luzi Pietra oscura, controversia teatrale sulla morte di un sacerdote che, rifiutando le cure, perde il diritto alla sepoltura. In bilico tra dubbio e fede si innervano le immagini di un’intelligenza inquieta: «Quale meravigliosa arma è il dolore, che strumento di vita si nasconde nel delirio di chi è colpito a morte», immerse nel «venire e infittirsi e dileguare» come «forme d’uomini e larve». Il pensiero irrompe sulla scena con coraggio: «Non riuscirete a convincermi che nella santità non ci sia anche un anelito di distruzione», e ricorda quando «non c’erano domande né problemi,/l’esser cristiani non era diverso/da vivere, da respirare», insinuando diffidenza nei confronti delle autorità ecclesiastiche: «La Chiesa continua con se stessa il suo discorso millenario. Come la madre, nasconde il suo affetto sotto la smorfia della crudezza. Pensate che la Verità e la Grazia siano legate alla sorte di un loro intermediario?». «In queste parole sento il freddo e la durezza. Come è difficile, astruso, e distante!», risponde con semplicità una donna. Ma chi era Don Francesco Patrizi suicida? «Viveva da sé, quasi in disparte il suo cristianesimo: aveva riconquistato il Cristo, era andato alle origini». È una dichiarazione di fede, quasi di poetica, una ri-fondazione cristiana. Infine, ricordando che «non dobbiamo porre un limite troppo netto tra vita e morte. Non si sa bene quando si comincia a morire», il coro recita: «percepire:/la terra e il suo silenzio/e la città murata/e il fischio desolato dei pianeti. La mia pena è durare… Tutto potrebbe rompersi… perdersi e ricominciare… dal tempo sempre uguale/potrebbe nascere il presente/purché in fondo ritrovassi la forza/d’una parola attuale… I pilastri del ponte/rode l’acqua del fiume».

(Quotidiano La Provincia 15-5-05 e Caffè Michelangiolo - versione integrale)

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