Giovani narratori italiani: De Majo






«Morire in una stanza a tre letti, mentre il condizionatore trasformava l’aria e convogliava l’acqua, e gocce di soluzione fisiologica, o di diuretici, o di antibiotici, percorrevano tubi di plastica per farsi strada nelle vene dei pazienti, e il suono dei clacson rimbombava da un incrocio vicino, e i resti di una cena prematura… stazionavano sui rispettivi comodini», incomincia dalla fine il romanzo d’esordio di Cristiano de Majo. La ricostruzione dell’opera di un giovane autore scomparso diventa il motore di una storia che coinvolge il lettore «empatico», come quello «che bada al sodo». Una scrittura che inchioda le scene a pochi gesti efficaci, lontana dall’«odiosa voglia di vivere dei napoletani». Napoli non rimane inerte sullo sfondo ma diventa ragione: «Quando sentivo notizie del genere o guardavo al telegiornale le irruzioni dimostrative della polizia, o passavo in rassegna le ripetitive scenografie degli omicidi, dovevo per forza di cose constatare come la città non fosse l’ordinato e malinconico centro mitteleuropeo in cui avrei desiderato vivere».
Un romanzo che si legge per il piacere dell’intreccio. La storia gira in un montaggio spietato che però lascia ampio margine al lettore. La “disperata” aderenza al reale (ricerca di documenti, catalogazione, sbobinamenti) è complice della finzione. Le immagini si innestano in sequenze descrittive: «Mentre andavamo, ascoltavamo la techno e i vetri erano sporchi di sabbia e il cielo era bianco come la crema Nivea», tra clacson che «grattavano come cacciaviti sulle finestre della nostra casa». Uno sguardo riconciliato («mia madre diede una festa per celebrare il suo addio alla scuola… La musica di Paolo Conte avrebbe fatto da sfondo a una serie di ripetitive recriminazioni sulla deriva populista italiana. Avremmo parlato degli italiani come specie inferiore, dell’ultimo editoriale di Scalfari, della presenza incombente di Licio Gelli negli ultimi cinquant’anni di storia italiana, degli errori di D’Alema… confessai a me stesso di non provare nessun sentimento di odio, disprezzo o sconfinata distanza intellettuale verso i sessantenni e le loro ingenue utopie retrospettive») ma disposto a opporre un messaggio forte: «le cose a cui faccio caso e in definitiva le cose di cui voglio parlare sono probabilmente cose a cui non presti nessuna attenzione… cose semplici».
Nessun eroismo, infine, ma qualche grado di mistero: «la paura di non essere in grado di fare un discorso civile, laddove la mia tensione civile si è affievolita e continua a evaporare. L’unica tensione di cui mi sento capace adesso è tutta interna e indescrivibile». Per questo «in tanti della nostra generazione – figli del ’68 e nipoti del boom economico – abbiamo scelto di esimerci dalla partecipazione alla vita economica del Paese, o meglio perché, durante o dopo gli studi, la nostra prima preoccupazione sia stata scoprire cosa volessimo fare davvero, cercando in modo nevrotico qualcosa che corrispondesse esattamente alla nostra taglia spirituale, come discendenti senza preoccupazioni di una nobiltà al potere, mentre le nostre presunte sicurezze economiche si stavano via via sgretolando».
Alberto Pellegatta


Vita e morte di un giovane impostore
scritta da me, il suo migliore amico
Ponte alle Grazie, pp.283, E.17,50


apparso su Gazzetta di Parma

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