Pierluigi Lavagnino

Nei gesti pazienti e stratificati come nei panorami narcotizzanti e sospesi e nella delicata grazia della composizione, Pierluigi Lavagnino, nella mostra allestita alla neonata galleria milanese di Cristina Sissa e introdotta da Gianni Cavazzini, si riconferma il raffinato maestro italiano del naturalismo informale di Fautrier e De Staël.

Nato a Chiavari nel ‘33, Lavagnino incominciò a dipingere fin dai primi anni Cinquanta. La scoperta dell’impressionismo di Cézanne, ma anche del concetto di tempo ritrovato, frutto di appassionate letture proustiane e della filosofia di Bergson, insieme agli oli veneziani di Turner, contribuirono a formare l’artista ligure, spingendolo a trasferirsi a Milano, allora epicentro della pittura italiana. La conoscenza di Morlotti, Chighine, Guenzi, Forgioli, Savinio e Ossola, lo introdusse in un clima di continua ricerca sul linguaggio pittorico, che lo caratterizzò fino alla morte. Sandro Parmiggiani curò, postume, ben tre pubblicazioni antologiche.

Questa esposizione, di quadri scelti con cura e testimoniata da un bellissimo catalogo, accompagna il visitatore attraverso tutti i gradi dell’incantesimo: dal paesaggio di spume del ‘57 che apre la raccolta, e che è somma di luoghi sovrapposti, intravisti, posti della memoria e orizzonti della mente, alle suggestioni di Torso (1960), in cui si affacciano forme sufficienti e primitive che evocano origini remote; dai chiarori improvvisi sui prati che sembrano profumare, dai paesaggi da inalare alle marine incise in eleganti grigi, dai panorami anemici e sognati, evaporati, fino ai mari che si diluiscono nel cielo, in dissolvenza. Il pittore spinge la scena a scomporsi, scardinandola dall’interno e restituendocela in quadranti tonali (Ritmi nel verde, 1967) o lasciando che la materia di cui è fatta la luce ricopra il fondo vegetale. Ogni elemento, ogni dettaglio in Lavagnino è studiato, ogni quadro è stato ripreso e lavorato a lungo, esito di un faticoso e incessante percorso, non di rado sofferto. Una bellezza schiva e segreta, quasi risentita, emerge dai quadri esposti, immagini di una tragedia naturale, di una scomparsa, resa abilmente attraverso il fuori fuoco. L’opacità diventa una possibilità della pittura di rifondare il passato, caricandolo di tensioni psichiche e riattualizzandolo. In Frutti (1979) lo sguardo, friabile, si chiude in 19 intensi centimetri. La compattezza della rappresentazione tende a mostrare il punto di contatto tra la natura e il suo interprete, coinvolgendo in questo anche l’osservatore. La luce, che popola i dipinti insieme alla materia, è elemento decisivo e fa pensare a un’indagine frontale sulla verità, in cui ciò che importa non è l’oggetto ma lo sguardo di chi lo ha frequentato, il suo specchiarsi all’interno della mente, «l’avvicinamento al centro dell’immagine» (Cavazzini) attraverso fratture e deformazioni che lo rendono più vero. Uno stato di ricerca continua che è anche qualità morale dell’artista.

Lo Studio d’Arte del Lauro propone, oltre agli oli, commoventi carte acquerellate, avvolgenti e grandangolari, e anche disegni, come quello del ’69, prezioso e raffinato contatto con Cézanne.

“Gazzetta di Parma” 17-11-05

Commenti

  1. Dalla cartella stampa della galleria:

    http://www.studiodartedellauro.it/rassegnastampa/gazzettaparma17-12-2005.jpg

    RispondiElimina

Posta un commento

Post più popolari