Per un secondo o un secolo di Maurizio Cucchi

Per un secondo o un secolo è un libro semplicemente bello, allegro e limpido, ma anche cupo, opaco, “increspato solo un soffio”. Ognuna delle poesie sembra nata esattamente nel luogo dove la ritroviamo, in una di quelle sezioni attraverso cui si articola il libro, come un romanzo.

Cucchi ci ha abituato ai suoi personaggi, ma questo non è solo l’ultimo di una serie, è uno dei più complessi e formidabili. Un’identità fittizia, subito dichiarata, un’identità frantumata, fatta di piccole passioni, di tiepidi risvegli. Nel respiro della poesia di Cucchi, nelle “stanze ariose” per cui ci conduce, ritroviamo raccolto quell’insieme di mondi, quel luogo totale che forse non è neanche un paesaggio, ma che coincide coi luoghi della mente. L’esperienza, le abitudini (igieniche, prima ancora che morali), le verità dell’esistenza, passano attraverso i sensi dell’artista e si depositano su un fondo, scendono per i cavi digerenti del cervello e riaffiorano cariche di significati inediti, si riconcentrano in simboli, e sono vera poesia.

Per un secondo o un secolo si legge per il piacere di leggere. È una storia, un’avventura, e quando ne ripercorriamo i brani, questi si aprono a nuove interpretazioni. Quando l’abbiamo finito, ci accorgiamo che ci ha portati più lontani di dove credevamo, oltre la storia e oltre i personaggi, oltre.

La straordinaria complessità del protagonista coincide con la capacità che ha Cucchi di coglierla nel mondo e di trasfigurarla. I suoi misteri, persino i suoi pigiami, ci vengono descritti con un’abilità naturale e sapientemente condotta, controllata, con un’economia della parola, del discorso, col magma di una scrittura che crea essa stessa l’immagine, così scarna e intensa. Il personaggio emerge per accumulo di frattaglie biologiche e di frammenti spirituali. Il corpo diventa un atlante dell’anima, perché i misteri sono sì dell’anima, ma è il corpo libro dove si leggono. La prima persona si disperde nella coscienza delle parti, nella deriva delle molecole, mentre il cuore è un “immenso magazzino” che custodisce tutto, e l’unità è nella voce, nel tono, nel timbro.

Il verso del poeta, da limpido (quale quello a cui ci aveva abituato da Donna del gioco in poi) si increspa e si espande, respira scoprendo nuove sonorità, scendendo in nuove temperature e arrivando alla prosa poetica (peraltro non nuova nell’opera di Cucchi), proponendola verso la fine del libro come una delle esperienze più originali, più immediate e oneste tra tutte le strutture formali, informale per sua stessa natura, eppure legata al sentire più autentico, meno artificiale e quindi più difficile da cogliere.

Nel libro c’è un’identità che si costruisce pagina dopo pagina, c’è l’anima e c’è il corpo, c’è il diario di viaggio (che è anche viaggio interiore, viaggio totale, frontale), c’è il mercato, ci sono gli affetti. È un libro completo, organico e forte. A questa nuova forma di fare poesia, così diversa dagli inizi de Il disperso, Cucchi ci arriva attraverso diversi avvicinamenti, attraverso due libri come L’ultimo viaggio di Glenn e Poesia della fonte. Da allora la dispersione comincia a dare campo all’accumulazione dei frammenti, al loro essere messi in tasca e conservati, senza buttare via niente.

L’autore ama immergersi in atmosfere letterarie rivivendole non come artificio, ma in profondità, calandosi nella temperatura dei testi cui si riferisce (penso al Rimbaud del Cabaret-Vert).

Cucchi ha già dimostrato di riuscire a dare vita ai suoi personaggi, nutrendoli con l’esperienza che riconosce loro attraverso i gesti minimi di un agire sufficiente, e già abbondante, eccedente. Quando mi ha detto che la scrittura poetica è porosa, che si nutre di piccole abitudini sane, di complicità, e che rifiuta la prevaricazione, ma accoglie la diversità di forme che i sensi ci offrono, per contrastare almeno un po’ quel buio spesso di caverna, indecifrabile, duro, della materia - “se per salire leggerissimi nell’aria, o sprofondare nelle caverne, cupo, se per il gusto, per il torpore o il sogno…” - quando mi ha detto che la scrittura risente delle nostre azioni, perché le nostre azioni descrivono i nostri sogni e scrivono i nostri personaggi, voleva dirmi che essere corretto, magari nobile, bestialmente nobile, è tutto ciò che conta. E ciò che conta è la lotta contro i predatori. Questo è il senso della sezione dedicata all’ “opulenza spettacolare e oscena” del mercato, del “libero mercato”, disposto ormai a qualsiasi commercio: “Sulla via pedonale latino americana/c’erano tanti bastoncini bianchi,/però Esteban mi apriva gli occhi./A parte questi giri fitti/misti di ombre e lucciole/che mi attraversano il campo,/cos’è la cecità fluviale?/Cosa sarà la mano/invisibile, e l’economia/permeabile che sui banchi al mercato/porta organi freschi a mucchi/e baracche digitali?/A chi lo chiedo, mentre cammino,/cammino come sempre: a questi teneri/e selvaggi musicanti di strada?/Loro, la loro gloria senza nome,/l’hanno pagata cara”.

La scrittura è la morale dello scrittore, di chi non può essere complice delle ingiustizie, pena la morte dell’incanto e la fine della voce. Il male purtroppo sta anche nelle cose, nell’intenzione con cui si costruiscono e nella maniera in cui si agisce, così il male corrompe la scrittura. Ma è vero anche il contrario, che la letteratura e la poesia diventano un balsamo per la società, un filtro per quell’anima collettiva, quella macchina con molte teste e braccia che ha un potere reale nella Storia.

Collegato al mercato c’è l’uomo, il protagonista, che è una sorta di eroe del consumismo, è un “selvatico dissipatore” che però non perde niente, ma raccoglie e custodisce tutto “nel taschino del gilè”. Una delle sezioni più entusiasmanti è quella dell’atlante, atlante spirituale che però è scritto nel corpo, e che in quella “materia cotta” spiega i suoi misteri, dentro quel “sacco per l’umido”, e che si manifesta come sensazione, o come rumore digestivo, respiratorio, come una meccanica di sistole e microvilli. La sezione ci commuove particolarmente nel ricordo dell’amico Mauro Maconi, che ha ancora il corpo “stagno” dell’atleta, mentre la malattia lo consuma da dentro: “Pensavo che le cavità/fossero immensa/vacuità viscosa/e invece sono spugna o massa/polposa. Eppure tutto/così mirabile e perfetto,/sulla struttura fortemente vertebrata,/ma non di meno cruento, compresso/nella sua economia in crescita/vertiginosa, esponenziale”.

“La fine – di questo libro - si versa nell’inizio”, nell’origine di buona parte della poesia di Cucchi, in quegli affetti domestici che hanno concorso a crearne l’identità, identità letteraria e insieme biografica, anche se sommaria e per frammenti.

L’amore e gli affetti si rintanano nella pazienza, che fa sopportare molte cose, ma non per questo non ci fa vedere l’altra parte, l’altro lato dell’amore, quello sordido, violento, la sua deriva insomma. E così il libro si chiude con una devozione d’affetto, con la più dolce sincerità dell’uomo, con la necessaria pazienza, perché, infondo, “è andata così” e basta.

(Quotidiano La Provincia)

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