Gauche Divine
La segreta sopravvivenza dell’intelligenza, a Barcellona durante il franchismo, la lotta quotidiana per la libertà e contro l’oppressione, si intrecciano necessariamente con la vita dei poeti di quegli anni. I figli della guerra civile trovarono nella parola la chiave più autentica della rivolta, consapevoli dell’eredità di maestri come Aleixandre o Machado, ma originali nei toni e aggiornati nei temi. La sinistra divina è il titolo di una bella mostra fotografica che si è tenuta proprio a Barcellona. Si trattava di commoventi ritratti del gruppo di giovani “per bene” che si opposero al conformismo della loro stessa classe con la sola forza della letteratura. Collaboratori della rivista Laye e della casa editrice di Carlos Barrall, pubblicarono autori stranieri inediti. La “Scuola di Barcellona” - come la vollero definire gli accademici – assomigliò più a una comunità radical chic, dedita allo scandalo, ai festini, all’alcol, alle pastiglie, ma soprattutto, a scrivere schivando la censura; furono scrittori tutt’altro che omogenei, idealisti fino alla “transizione”, fino al disincanto democratico. Educati al whisky e a Eliot, ricercarono nella poesia una sospensione feriale - chi musicale o metafisica, chi narrativa o orizzontale - dall’affanno del mondo. Arrivarono a creare una poetica della conversazione amicale, come luogo dell’intelligenza.
Questa che proponiamo è un’antologia di testi che li rappresenti – per quanto sia impensabile sperare di esaurire così la loro conoscenza. Ai canonici nomi cui è ricondotta l’immagine del gruppo catalano vogliamo aggiungerne altri che hanno, a nostro avviso, il merito di aver concorso, lontani magari da Barcellona, a mantenere e innovare quell’«architrave» (Biedma) umana e letteraria che in Spagna ha corso pericoli gravissimi. Per aiutare a immaginare il clima sociale e letterario di quegli anni – ma anche per il piacere di riscoprire autori trascurati - si è pensato di introdurlo attraverso i testi di due poeti appartenuti alla generazione di mezzo tra i maestri e i giovanissimi. Una doppia esperienza, quella civile di Blas de Otero e quella più misteriosa di Juan-Eduardo Cirlot – che proponiamo come caso singolare nel panorama della poesia spagnola – opposte tra loro e a ridosso dell’età dei “padri”: Aleixandre, Antonio e Manuel Machado, Rafael Alberti, Gerardo Diego, fino a Juan Ramón Jiménez, Miguel Hernández, al catalano Pere Quart. Due esperienze importanti che faranno da viatico alla “rivoluzione” dei nati negli anni Venti, innovando la lingua e rispondendo a nuove urgenze: il franchismo che, peggio, se possibile, del fascismo in Italia e più odioso, bestiale, stava aggredendo ogni attività culturale, censurando e costringendo molti a pubblicare in America Latina, tenuti d’occhio dal regime, tollerati solo se borghesi, come Biedma, Goytisolo o Barrall. Questi che seguono sono i figli di quella guerra civile, poeti che il critico Castellet riunì in una celebre antologia, tradotta negli anni Settanta anche in Italia da Feltrinelli.
Razze sordomute, perse nei loro passaggi più profondi, prendono la parola bruscamente e, dalla valle addormentata sotto la nebbia, questo coro suona illuminando regioni desolate e magnifiche.
Così, fino a che tutta la terra non si trasforma in eco.
aspetta le tue colombe abbaglianti.
Senza frutta, con le foglie desolate
estatico si alza. Non fiorisce.
sempre sterile; i rami rotti
come arterie e senza fiori, disabitati:
vestigia di altro mondo che sparisce.
in lamenti senza voce; duri fulgori
metallici, che coprono la tortura
che estende disseccata la follia,
sotto il cielo scuro e il silenzio.
per i seni incisi, per il polpo
che lento si beve l’orizzonte.
frenetiche di altari accesi,
sulla dolce spugna del suo ventre.
rimbomba nelle pareti di legno
e le dita si rompono come nardi.
nel tumulto legato alle battaglie,
all’inno del dolore che continua.
scura. Il mare oscilla.
Sulla barca eterna
tu vieni e vai.
lontana. Il vento piange.
Nella casa eterna
tu vivi e non ci sei.
e anche nell’edera che lo sgretola.
Tutto si sopravvive e si ripete
sulla grande canzone dello scatto.
uno speciale belato di montagna;
qualcosa che incombeva senza piangere
mentre il disgraziato si affacciava.
le porte tremanti riposarono,
le tele separate della rosa
lasciavano le sue monete d’ambito.
di quell’immagine di oro sostanziale.
Dalla sua quiescenza eterna si allontanavano
foglie come cristalli in silenzio.
dalle sue mani di pietra non venne fonte.
Numeri interrati nei loro circoli
formavano aloni neri con dolore.
non conoscevo il filo dei tempi
né questa disgregazione fondamentale
che scricchiola se muovo la testa.
con occhi di dragone vedo passare gli uomini,
con bocca di vulcano assisto a uno splendore del crepuscolo,
con mani minerali e corpo di cristallo ritorto
sto in una casa umana.
al bordo dell’abisso, sto invocando
Dio. E il suo silenzio, rimbombando,
affoga la mia voce dentro al vuoto inerte.
sveglio. E, notte dopo notte, non so quando,
sentirai la mia voce. Oh Dio. Sto parlando
da solo. Ragnatelando l’ombra per vederti.
Apro gli occhi: me li strappi vivi.
Ho sete, e diventano sale le tue spiagge.
Essere – e non essere – eterno, fuggitivo.
Angelo con grandi ali di catene!
e del vaso; dell’uomo e dei suoi due morti;
scrivo per grida, dico cose forti
e mi sente anche dio. Così si parla.
la mia voce in pelle sotto la canicola.
Poeti da spuntino, gente ridicola.
Indietro questa fanfara! Che taccia!
la lingua, con le mano a megafono:
«Tarchia! Che dici! Come! Dove! Quando!»
(oh quei poeti tamarri, in sordina,
figli di papà) e contro il gelo.
ciò che ho tirato, come un anello, in acqua,
se ho perduto la voce tra le erbacce,
mi resta la parola.
ciò che era mio e risultò essere niente,
se ho segato le ombre in silenzio,
mi rimane la parola.
puro e terribile della mia terra,
se ho aperto le labbra fino a strapparmele,
mi resta la parola.
«Come qualsiasi poesia mediamente ben fatta, sono privo della libertà interiore, sono tutto necessità e sottomissione a quel tormentoso tiranno, a quel Big Brother insonne... per metà Calibano e per metà Narciso, lo temo soprattutto quando, accanto al balcone aperto, sento che mi domanda: “Che fa un ragazzo degli anni ’50, come te, in un anno indifferente come questo? All the rest is silence», così introduceva la propria raccolta completa Gil de Biedma - che smise di scrivere a trent’anni, lui che è stato il motore del gruppo. Nato a Barcellona nel 1929, ha viaggiato in Oriente per lavoro e ha pubblicato il suo primo libro nel 1953. Las personas del verbo rimane l’edizione delle poesie licenziate dall’autore. Traduttore di Eliot e Isherwood, fine critico letterario, è morto prematuramente nel 1990, consegnandoci anche un gustoso diario postumo.
sul muro color piccione di cemento
- senza dubbio vivido – e il freddo
repentino che quasi ci sorprende.
in mezzo alla strada familiare
come in un grande salone, dove arrivano
moltitudini lontane come esseri amati.
il gran bouquet che si apre nell’anima
mentre sopra galleggiano promesse
che si sfanno come spume.
che il fatto di star vivi esige qualcosa,
forse eroicità – o basta, semplicemente,
qualche umile cosa comune
Parole, per esempio.
Parole di famiglia guastate tiepidamente.
e molte volte siamo stati soli.
Però poi ci sono momenti felici
per abbandonarsi all’amicizia.
Guarda:
siamo noi.
le ore, e germogliò la compagnia.
Giungevano le notti. Per amore loro
accendevamo parole,
le parole che poi abbandonammo
per salire più in alto:
iniziammo a essere i compagni
che si conoscono
oltre la voce o il segno.
le parole gentili
- queste che ormai non dicono cose –
galleggiare leggermente nell’aria;
perché siamo impigliati
nel mondo, sarmentosi
di storia accumulata,
la compagnia che formiamo è piena,
frondosa di presenze.
Dietro ognuno
veglia la casa, il campo, la distanza.
Voglio dirvi qualcosa.
Soltanto voglio dirvi che siamo tutti uniti.
A volte, parlando, qualcuno dimentica
il suo braccio sul mio,
e io benché taccia ringrazio,
perché c’è pace nei corpi e in noi stessi.
le nostre vite qui, per raccontarle.
Lungamente gli uni con gli altri
nell’angolo a parlare, tanti mesi
da non ricordare, e nel ricordo
la gioia è uguale alla tristezza.
Per noi il dolore è tenero.
a due ore da qui,
mi serve da conforto.
la luna si spossa,
si addormenta il sole temporale.
che ora io immagino
- sognando di vivere
fino all’esaurimento
della carne, felice.
contento di stare solo
con la vita che mi basta.
per non più di qualche notte,
sarà come bagnarmi.
che esce dalle nuvole:
allegra e delicata traccia sulle foglie,
fulgore su un cristallo, modulazione
dello spento luccichio della pioggia.
la tua città di innumerabile cristallo
identica e distinta, cambiata dal tempo:
strade che non conosco e la piazza antica
popolata dagli uccelli,
la piazza in cui una notte ci baciammo.
dopo tanti anni,
questa notte quando mi guardi:
la tua stessa espressione
e l’espressione ferita delle labbra.
amore senza esigenza di futuro,
presente del passato,
amore più potente della vita:
perduto e ritrovato.
Trovato, perduto…
che sorpresi a guardarci
in quella piccola pineta, vicino alla Facoltà di Lettere,
più di undici anni fa,
ancora stordito di saliva e sabbia,
dopo esserci rotolati entrambi mezzi vestiti,
felici come bestie.
con quale riconcentrata intensità di simbolo
va unito a quella storia,
la mia prima esperienza d’amore corrisposto.
E se adesso nelle tue notti accanto a un corpo
ritorna la vecchia scena
e ancora spii i nostri baci.
come un grido sconnesso,
l’immagine dei tuoi occhi. Espressione
del mio stesso desiderio.
-che non è un gioco- è qualcosa
che assomiglia in linea di principio
al piacere solitario.
negli anni nostalgici
della nostra adolescenza,
incominciammo a scrivere.
del tutto immaginarie
-troppo inesperte
neppure copiate-
è un angelo astratto,
e, come tutti quelli,
predisposto a lusingarci.
Diversa. Il risultato
di molta vocazione
e un po’ di lavoro.
in versi misurati
-e non ai sentimenti
con cui ci esaltavamo-,
come fosse magica
è un buon esercizio,
che arriva a ubriacarci.
accordato:
la migliore poesia
è il Verbo fatto tango.
un modo che adottiamo
perché ci capiscano
e per capirci.
è la vita, le forme
della sua filantropia,
le notti dei suoi sabati.
soprattutto in estate
di essere un paradiso.
Sebbene, di quando in quando,
che se le porta il diavolo
uno pensa alla storia
di questi ultimi anni,
che ci riduce a pezzi
di legno marcio,
perduti in un naufragio,
-per tentare
di convincersi in segreto
d’essere ancora degno.
che non è un gioco, è qualcosa
che finisce somigliando
al vizio solitario.
e le lenzuola sporche per terra.
Dai vetri della veranda
arriva l’alba,
con il suo colore di soprabito autunnale
e le calze da donna.
che il portiere di notte vi ha chiamato.
E ascolta nel silenzio: ripetutamente
in lontananza, si ascoltano sferragliare
i tram che portano al lavoro.
E’ l’alba.
recisi, nei chioschi delle Ramblas,
e canteranno gli uccelli –quei cornuti-
dall’alto dei platani, guardando ritornare
la nera umanità che va a letto
dopo l’alba.
Affonda la testa nei cuscini,
sentendo ancora l’irritazione e il freddo
che da l’alba
accanto al corpo che tanto ci piaceva
ieri notte,
Pensa alla casa ancora scura
dove entrerai per cambiarti il vestito,
e all’ufficio, col sonno da vincere,
e alle molte altre cose che si annunciano
già all’alba.
di un altro respiro. Anche se cerchi
quel poco di calore tra le sue cosce,
mezzo addormentato, inizi a rabbrividire.
Anche se l’amore non smette d’esser dolce
una volta fatta l’alba.
tanto, nudo, lasciami che accenda
la luce per baciarti viso a viso,
all’alba.
Perché conosco il giorno che mi aspetta,
e non per il piacere.
durante le rare visite, quando andavo
guadagnando giorno per giorno, mi produco
un’impressione amabile.
Restava un odore acre,
come di vernice, e un sapore di legno e di ferro nobile,
la memoria del rumore e le immagini
meravigliosamente decomposte.
Ricordavo un angolo
guastato dalle mani,
tenero come la voce del padre,
e un luogo con sfere di marmo.
che un giorno attraversavo
e l’altro dimenticavo, per motivi
quasi magici,
si fece presente.
scritto, lì di mattina
presto si fermava la luce,
l’aria... e tutto quanto facevo,
tutto era pagato, tutto a credito
di resa libertà, di coscienza
confusa...
No, non voglio, dissi
guardando i mucchi
di rottami,
la terra verde e nera della strada futura
... e una ragazza triste che passò
senza fretta...
E ero libero
solo di dire ciò che non importa.
è sorprendente
che ancora pensi e immagini. È una rovina,
un lago di memoria che sprofonda
in caverne di dimenticanza, per burroni
di ossa apparenti
di secoli. Ma inventa,
del vivere oltre il destino,
di accovacciata mummia nelle stanze
e fantasma nelle sale dei vicini.
un po’ di amore per il visibile e per te stesso
e ti invita a inventare mentre si siede
che eseguono un dramma di impazienza
con biondi fiamme azzurre.
calcificarono boschi e fiumi.
Il nome della Giustizia
ingiusti testimoni hanno alzato,
e altri e altri crimini
che sarebbe prolisso enumerare,
e un altro delitto commisero
più raffinato e atroce.
Conficcarono nel petto umano
la coccarda del terrore.
peggiore che il proprio.
Sacerdoti di un nuovo culto
-e quanto antico-
il terrore preventivo reinventarono,
principio e croce di tutta la sottomissione.
un’ombra; piantiamo qui un albero, qui,
e in punta di piedi là un idolo sbricioliamo.
Qui un poeta canta parole vere,
là parole cieche a colpi interriamo.
Là nei campi più bassi, là in Andalusia,
un giorno –per esempio- con cura marchiamo;
qui sull’alto tavolino, qui a Madrid, adesso,
in questa primavera un’altra più luminosa
progettiamo.
dell’alcol dal sapore amaro
durante l’alba prestissimo,
vacillante e infermo il cuore.
Cit, cit, cit, tuit, tuit, tuit,
La morte canta negli uccelli
Si infiltra il suono breve,
presago e sordo tiritìt, titiritì,
otto ottavi di povertà
in quest’alba dei gemiti.
mi si è riempito il cuore di freddo.
con le prime foglie già se ne sono andate.
non tornerà il suo tempo per il mio.
Case avete come luoghi
per occuparvi, impalpabili.
collocati così
che non fate uso
delle piccole porte
che nelle vostre ultime stanze
non c’è un tiepido letto
né un vaso di cristallo
aspettando il contatto delle labbra
continuate con la vostra morte.
Salute abbandonati!
frombolieri brava gente.
di lotta e di amicizia.
io vi riconosco, adesso.
la neve del luogo.
alla frutta furtiva.
Devo parlarvi.
il vino rosso d’aria e
dalla tua ritrovata libertà
uscirò per le tue strade
cantando
cantando fino a rimanere senza voce.
Perché sarà di nuovo
e per sempre
terra di valenti
rifugio di poveri
capitale dei mari,
archivio della cortesia
tu Laye mia città.
perché il mio essere pesasse sulla terra,
fu necessario un ampio spazio
e un lungo tempo:
uomini di tutti i mari e di tutte le terre,
fertili ventri di donne, corpi
e altri corpi fondendosi incessantemente
in altri corpi nuovi.
Solstizi e equinozi illuminarono
con la loro luce mutante il cielo,
il viaggio millenario della mia carne
mentre si inerpica per secoli e ossa.
Dal suo passaggio lento e doloroso
dalla fuga verso la fine, sopravvivendo
naufrago, afferrando
l’ultimo sospiro ai morti,
non sono altro che il risultato, il frutto,
quello che rimane, marcio, tra i resti;
quello che vedete qui,
solo questo:
un detrito tenace che resiste
alla rovina, che lotta contro il vento,
che avanza per cammini che non portano
da nessuna parte. L’esito
di tutti i fracassi. La loquace
forza della disperazione.
sul mare pulito dei tuoi fianchi.
Tropico del tabacco, del legno
rimestato dalle onde dei tuoi mari.
tutta la tua superficie si riverbera...
Sotto la luce della tua primavera,
sul punto di scongelare.
rompendo meridiane e impazzendo.
Le api volano dalle tue colline.
tanto varia ricchezza di bellezza
pesa sulle tue spalle, che ti incurva.
- Mi entusiasmano i tuoi occhi.
Ed ella disse:
- Ti piacciono da soli o con il rimmel?
- Grandi,
risposi senza dubitare.
E sempre senza dubitare
me li lasciò su un piatto e se ne andò a tentoni.
Nessuno si bagna due volte nello stesso fiume.
Tranne quelli molto poveri.
I più dialettici, i multimilionari:
non entrano due volte nello stesso
costume da bagno.
(Traduzione dal cinese)
(Tranne i marxisti-leninisti.)
(Interpretazione del pessimista.)
rimane.
Meno
la Storia e la salciccia della mia terra:
Mangiate, questo è il mio corpo.
Bevete, questo è il mio sangue.
di iene,
di vampiri.
seguono fluendo senza dubbio sillabe
che formano parole senza senso.
così – gialle, fredde –
crescono le unghie ai morti.
l’ho amata con un altro nome.
Tra
il desiderio e il suo oggetto c’era un tempo
riducibile a speranza.
per non vedere,
i cieli erano alti
per non vedere: il sogno
alto per non vedere
più sogni del sognato.
con quelli lo sguardo
rotondo per il frutto.
L’aria era piena
di potere e di uccelli,
la scodella materna
di profondo riposo,
la preghiera di risposta
e di luce sufficiente.
di ciò che non ricordo.
È potuta durare la vita,
sicura e ripetuta,
essere promessa a dio.
E tutto
è potuto essere pasto oscuro
di un altro dio, di un altro sogno.
di dissoluzione
e al quarto rimase solo
con lo sguardo fisso alla risposta
che nessuno poté dargli.
Ma scendi, cuore, ripassa
erba segreta e cespuglio scuro
come la pianta antica del pastore.
Scendi a scrutare la trasparenza fredda,
nei boschi delle vene, senti
i ruscelli pacifici, il rumore
denso e materno del latte, ascolta
il passo prodigioso delle bestie.
Incrocia l’ombra del tuo corpo, passa
sulle impronte comunali, dormi
nel silenzio come un dio stanco
E, poi, concentrati sul sussulto puro,
sulla fresca, gloriosa sbandata
dell’acqua nella gioia, separa,
ripartita in luce, pallida spuma...
è la modulazione, volontaria:
il ventre solidale del coltello,
le teste indebolite, unanimi,
le sue labbra; la fisica dolcezza
che entra lentamente nel cuore e parla.
- A. Costafreda, Poesía completa, Tusquets, Barcellona 1990
- C. Barral, Memorias, Península, Barcellona 2001
- J. Gil de Biedma, Retrato del artsista en 1956, Lumen, Barcellona 1991
- Biedma-Ferraté, Cartas, Sirmio, Barcellona 1991
- J. Gil de Biedma, Las personas del verbo, Seix Barral, 1982
- J.Á. Goytisolo, Poeta en Barcelona, Libros de la frontera, Barcellona 1997
- Á. Gonzáles, Palabra sobre palabra, Seix Barral, Barcellona 1986
- J.Á. Valente, Punto cero, Seix Barral, Barcellona, 1980
- A. Gamoneda, Libro del frío , Germania, Valenza 2000
- A. Gamoneda, Edad, Catedra, Madrid 1987
- Blas de Otero, Ancia, Visor, Madrid 1997
- C. Barral, Poesía completa, Lumen, Barcellona 1998
- J. Gil de Biedma, El pié de la letra, Critica, Barcellona 1980
- C. Riera, La escuela de Barcelona, Anagrama, Barcellona 1988
- D. Torres Fierro, Estrategias, Seix Barral, Barcellona 1994
C. Riera, Partidarios de la felicidad, Círculo de Lectores, Barcellona 2000
Ultramort è un toponimo.
Laye è il nome iberico e preromano di Barcellona
(Nuovi Argomenti N.31/2005)
(Nuovi Argomenti N.31/2005)
Wow, bel lavoro! Cristina
RispondiEliminaHas elegido muy bien, espero verte pronto en Barcelona - Silvia
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