Velocità della visione - Convegno sulla nuova poesia italiana 6-7 maggio 2016
Fondazione Mondadori Milano
Il pubblico è diventato maggiorenne: ora può distinguere tra buona e cattiva poesia
Introduzione di Alberto Pellegatta
Il
terzo millennio, dopo il glorioso Novecento della poesia italiana, sembra a
prima vista un’epoca di epigoni, pur nell’abbondanza degli esercizi. Il secolo
si è inaugurato con un’abnorme produzione di raccolte di poesia - inversamente
proporzionale alle vendite, quindi di scrittori che non leggono - e l’humus
letterario non è mai stato tanto numeroso e variegato, dai neomelodici ai
performativi, dagli avanguardisti oltre-tempo-massimo alle solite retroguardie
paludate. Constatiamo un appiattimento contenutistico senza precedenti –
l’assenza di vergogna di cui ha parlato Andrea Ponso al recente convegno sulla
nuova poesia, Velocità della visione,
organizzato con il sostegno di Cariplo e Fondazione Mondadori. Ciò nonostante,
nel pandemico panorama attuale, alcuni autori si distinguono nettamente - se si
ha la pazienza di cercarli ignorando la critica on demand e, soprattutto, se si è in possesso di «ben costrutti orecchi».
I migliori spiccano per una pronuncia naturale che scava in profondità, dove è
più scomodo indagare. Il linguaggio si è differenziato dal “parlato”,
che è ormai troppo ambiguo: se nel Dopoguerra e fino agli anni Settanta per i
nostri maestri era una scelta ragionevole, oggi è una lingua posticcia, determinata
dal marketing televisivo. L’elevato
numero dei giovani autori indica però che la poesia continua a essere il
laboratorio italiano del linguaggio. Ciò che a volte manca è il confronto
diretto sui testi, abbandonando intenzioni e pose letterarie. La bellezza, intermittente come la
felicità, esige l’apertura verso l’altro, il paragone. E il buon esito di
un’opera si misura dalla costante messa in discussione dei risultati raggiunti.
Da questa ricerca nasce lo scarto, l’eccedenza che ci fa riconoscere la poesia
più autentica: operazioni di verifica e sperimentazioni che diventano strumenti
per elaborare continuamente le proprie ossessioni formali. Sentirsi diversi dalla mandria degli officianti non basta, non basta dissentire o
indignarsi. Serve qualcosa di solido e risolto nel proprio lavoro, la prova del
nove dei buoni propositi. La scomparsa di una critica maggiorenne - capace
di stroncature e in possesso di sensibilità artistica – unita a politiche
fallimentari hanno inquinato il gusto a forza di surrogati. Non dobbiamo
piangerci addosso ma trasformare questa fragilità in volontà, la soluzione è
lavorare seriamente anche ai dettagli cui nessuno farà caso, perché è nel
linguaggio (ben mantenuto) che si gioca il riscatto del pensiero.
L’intelligenza rimane un bene-rifugio.
Uno degli aspetti più
interessanti della nuova generazione è l’indagine sulle possibilità stesse della
parola che, dopo l’apprendistato, ha permesso ai fiati di rilassarsi,
distendendosi nei flussi elettronici delle chat e dentro gli schermi delle
webcam, contaminandosi con altre discipline - pensiamo alla musica per Silvia
Caratti o al disegno per Massimo Dagnino. In questa apertura multidisciplinare
è facile intravedere le basi di un fecondo fermento, capace di cambiare
dall’interno il linguaggio e le sue priorità filosofiche – si guardi alla
differente concezione del lavoro: dal sacrificio all’opaca inoperosità. La
struttura metrica
non vuole passare come una canzonetta, ma creare contrasto e frizione.
Nell’aggiornamento musicale operato dai nuovi poeti, il verso si è dilatato
fino a coincidere spesso con l’ipermetro
e con la prosa poetica. Nei testi è presente la quotidianità ma non manca la
visione, il mistero, l’apertura, anche ingenua, al mondo. Sono autori
consapevoli di ciò che li ha preceduti, e per questo più solidi. La loro poesia
sembra più vicina allo spirito degli anni Settanta (Cucchi, Porta, Bellezza) piuttosto
che alla generazione intermedia, dalla pronuncia trattenuta poco propensa al
rischio – tratto
distintivo, invece, dei nati dopo il ‘68. Rispetto alle generazioni precedenti,
i poeti più giovani, educati a grandi aspirazioni (anche materiali), si sono
ritrovati in un medioevo impoverito e fondamentalista.
Tra
censimenti di migliaia di nomi e plaquette spesso introvabili, le ricerche per
questa antologia non sono state semplici. Se poi il primo libro è buono, spesso
i successivi non riescono a mantenere le promesse. I nomi che proponiamo sono
quelli che hanno saputo rinnovarsi senza abbassare la qualità. È chiaro che nel
preparare un’antologia così selettiva molti siano rimasti esclusi, tra gli
altri voglio ricordare Igor De Marchi, Luca Minola, Piero Simon Ostan, Stelvio
Di Spigno e Alessandro Pancotti – che però ritroverete nell’utile appendice che
va sotto il nome di Schedario,
e che raccoglie gran parte delle esperienze contemporanee e la totalità
delle tendenze. Sotto una certa soglia, infine, sembra che tutti i nomi siano
intercambiali e ci assale l’atroce sospetto che sia un solo, unico autore.
Silvia Caratti è
diplomata al conservatorio e laureata in Lettere con una tesi su Brahms, le sue
poesie, armoniche ma asciutte, sono inserite nelle principali antologie dell’ultima
generazione: I poeti di vent’anni (Stampa 2000) e Nuovissima poesia italiana (Mondadori 2004). Nel 2000 ha esordito
con una raccolta già matura, La trama dei
metalli (Lietocolle), e un’anticipazione del suo nuovo lavoro è apparsa su Almanacco dello Specchio Mondadori 2005
e in Mea infera caro (Edb 2012),
oltre alla recente plaquette Lettere per
un ritorno (Arca Felice 2016). La
poetessa piemontese dispiega «le fibre del cuore ondulate» per realizzare in
vitro, nel suo particolare laboratorio lirico, tra «vetrini», «teche» e
formalina, un’«esposizione universale» del dolore. Il tema amoroso irrompe sempre
senza stucchevolezze, dissezionando l’affetto: «Potessi stare in una
circonvoluzione/sondare la pia madre/andare a stanarti./E sventrarti.//(hai paura,
amore, delle dure parole?)». E anzi la coppia diventa strumento di indagine:
«buio delle tue corone/che sondo con la lingua». La pagina fa attrito, è
«l’aspirazione alla materia… il segreto spugnoso tessuto delle vertebre… È
l’esposizione della materia/che cova umida e ingabbiata/che vive di vita
propria e pulsa/difesa dallo spesso osso sternale/che ti vorrei spaccare amore.
E entrare». Una cadenza prosciugata, un linguaggio verificato, ricondotto a un canzoniere
del disamore. Il sentimento è crudele e insieme violentemente dolce: «Spezza,
ti prego, anche me e insieme lasciami intera,/distribuiscimi con le tue mani/al
bordo di questo letto. E ricomponimi». Procedendo nello smantellamento, nel
disarmo, si arriva presto al nocciolo della questione: «Se solo si riuscisse a
farne una questione tecnica/a non stare sempre lì a domandarsi:/sentirò
qualcosa anch’io?/Un presagio delle labbra che si seccano/le costole che
franano/i denti che s’inclinano.//È un miracolo di cristallizzazione/che ancora
non capiamo/e disprezziamo». Fabrizio Bernini è nato invece a Broni, nella provincia pavese, nel 1974. Ha svolto i
più svariati lavori, dall’operaio al cuoco, per poi trasferirsi a Milano nel
2004, dove attualmente lavora come insegnante. Ha pubblicato La stessa razza (Lietocolle 2003, Premio
Orta e Premio Giuseppe Piccoli) ed è presente nell’antologia Nuovissima Poesia Italiana (a cura di
Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi, Mondadori 2004). Suoi testi sono usciti
nell’Almanacco dello Specchio (Mondadori
2006), mentre L’apprendimento elementare (Mondadori
2011) è il suo ultimo libro, che ha meritato il Premio Antonio Fogazzaro. La
sua poesia, ruspante e agganciata alla realtà, ci offre momenti di ruvido
attrito («Non è un verbo. Eppure ti resta incastrato/sul labbro»), andamenti
narrativi su cui si innestano i lampi lirici: «Questo appartamento/conclude
l’aria e il mio vantaggio a tinta unita./Ci vivo, ma piano. Dalle casse dello
stereo/un dio al congiuntivo/mi offre la bestemmia»). Nei versi di Lorenzo Caschetta (Modena 1975) confluiscono invece
accenti lucani, legati alle origini familiari dell’autore e alla partecipata lettura
di Rocco Scotellaro, insieme a cadenze più squisitamente emiliane. Nelle sue
raccolte, Carta annonaria (Lietocolle 2005) e Convalescenze (Stampa 2013), la poesia aggancia la terra ma è
capace di potenti visioni, aspra e frontale: testi raffinati, brevi o
poematici, mossi dall’inquietudine. Già il primo
libro era sorprendente: la critica parlò di «ricerca della terra», di «senso del vuoto» e «densa opacità naturale», parole
con le quali il lettore non potrà che convenire. Il linguaggio, controllato e
musicale, si rasserena nei paesaggi notturni come una «tosse dolce»: «Venti
grammi d’incanto:/tanto mancano le rondini». Caschetta oppone alla vacuità «un
atlante» vitale, una geografia di «carciofi», di uccelli «alti sul mare/senza
litio». Una resistenza al dolore che non è consolatoria, efficace anche nel
montaggio: «Di colpo mi manca uno scheletro esterno/sei zampe per sottrarmi».
Una poesia consapevole: «Utilizzo parole povere… non fossero caduti grandi sostantivi/non
rincarasse la verdura/e in proporzione gli abiti da sposa». Oltre all’evidente senso della prosodia, Caschetta possiede
un’intelligenza viva che mette in relazione il mondo con i meccanismi
misteriosi della mente. Se
il libro è un edificio, l’esordio di Massimo
Dagnino, Verso l’annichilirsi del disegno (Lietocolle 2004), è
una struttura stabile. A quella raccolta sono seguite conferme come Paratassi
(Edb 2007), Presente continuo (Stampa
2007), Convalescenze (L’arca felice
2014) e ora Azzurro possessivo (Algra
2017). Uno dei suoi primi testi, Il sogno dell’architetto, introduce un
tema ricorrente: l’architettura in dialogo con il corpo umano. Versi originali
e disinfettati, raffreddati in un processo descrittivo che va dalle città agli
abitanti: «Lo spaccato assonometrico» metropolitano è un luogo in cui
riconoscersi, una topografia della scrittura. Attraverso la dissolvenza,
l’autore disegna il proprio mimetismo. La «prospettiva scrostata/dei muri» e
«il panorama/quadrettato, disciplinato» sono i protagonisti. La città è
«ritmo», «frequenza», misura della vita. Per sovrapposizione Genova è insieme
Boston, Tokyo e San Francisco. Una città totale in cui si muove la folla, come
nella poesia che rimanda al quadro di Frith, nel
quale la gente è colta nella sua molteplicità durante il giorno del derby,
dandoci l’impressione di essere noi stessi parte della scena. A questa moltitudine
Dagnino offre la propria voce («autobiografia della folla», appunto), dal
«fuori campo, in bilico tra playback e film», in un’atmosfera estraniante. Tra
le sue pagine troviamo il «passaggio», il «tunnel», lo «spazio fluido» di una
visione «grandangolare», «l’esplorazione/emotiva» della «città/vivente». I
personaggi, reali o incontrati nella rete, sono un ulteriore elemento di
modernità. Spesso struttura i testi come in un montaggio cinematografico: la
marcatura della voce sta nel raccordo.
Francesca Moccia è una
poetessa difficile, visionaria, dal linguaggio spezzato. La sua scrittura
compatta «assorbe la dimensione al suo interno», «produce ombre» e teme «che si
geli l’acqua quando sta nuotando». Un «limoso forsennato battere di colpi» da
il tempo e riassume l’intero paesaggio lirico, fino al punto in cui non rimane
altro che «vagare eternamente nel giallo dei tronchi», nella «poltiglia
avvilita». La visione ci porta «dove dentro vuol dire lontananza e le linee/del
respiro hanno la stessa sincronia/innocente della nascita», dove «i due
punti/che io immagino lontani si uniscono». Un paesaggio residuale di «stelle
collise», nel quale «la collina è un filo che si ritira» e restituisce «più
pericolo che importanza». La «voce degli impulsi», partecipata, detta uno stile
a tratti furioso, «imbottito di esplosivo», che sa però refluire quiescente:
«ma quando la mia calma torna penso al/mio tema natale, alla mia coscienza… Al
suo scenario ineccepibile». Propone una «realtà leale». Già nel primo libro, La muffa del creato (Lietocolle 2005),
ci aveva trasportati in atmosfere cupamente ambigue, e così ha proseguito in Wilderbeast (con Jack Underwood, Edb
2013) e in erbaluce (Arca Felice
2015), concedendo al lettore solo immagini da decifrare. Una realtà
inafferrabile che registra la resistenza del mondo alla logica: «Le labbra di
lupo finanziano l’anima». Il paesaggio è quasi narcotico e la poesia, atletica,
va oltre l’ostacolo. Il passaggio del tempo («Apro la risposta/il tempo/è
popolazione viva») non è solo deteriore, concede riscatto al tormento.
L’orizzonte si disfa nell’osservatore: «Il fiume rilegge la campagna». La divinità
è «remota», brucia come fiamma viva, e sa «ricomporre» le forme. Mai
confessionale, Francesca Moccia abbraccia distanze planetarie («l’orizzonte
delle pene allinea i nostri riflessi»), alla ricerca del termine «acuto», della
parola perfetta, scattante come un nervo teso sottopelle. Quasi agli antipodi,
proseguiamo con un’altra importante conferma, Andrea Ponso (Noventa Vicentina
1975). Le sue poesie sono apparse nelle antologie Poeti di vent’anni (Stampa 2000) e Nuovissima poesia italiana (Mondadori 2004), nonché nelle raccolte La casa (Stampa 2003) e I ferri del mestiere (Mondadori 2011).
Ha lavorato come ricercatore e insegnante. Ha tradotto dal francese e studia
teologia. I suoi versi hanno un tono piano ma una temperatura elevata. Il
dolore per la condizione umana fa da basso continuo ma con un’apertura finale
che ci offre speranza. Nei suoi testi si ritrovano elementi della realtà
quotidiana dei «mestieri» («Ho preso/sulle spalle le incombenze, i silenzi,/la voglia
di dormire, il mutuo. Ora/lavoro ogni giorno, vengo da solo/a mettere una mano
sopra i sassi/mentre mancano le parole giuste») come anche tensioni spirituali
tormentate: «Sento i nervi e i denti tirarsi piano/nella loro posizione,
rientrare/negli alvei come un ordine,/una correzione». La critica aveva già
dato rilevanza a una possibile ascendenza francese (Ponge) ma, come scriveva
Mario Santagostini introducendo il suo lavoro: «predilige l’inoltrarsi nelle
zone incerte, ambigue e primigenie della natura. Zone di verità irreali, tra
sogno e memoria, dove la divisione degli elementi non è avvenuta, dove natura e
psichismo coabitano ancora». Una scrittura dall’impasto tecnico sicuro,
controllatissima e acuta.
Francesco Maria Tipaldi (Nocera Inferiore 1986) è il
più giovane dell’antologia, ma è anche uno dei più energici. Laureato in Farmacia, ha pubblicato Humus (L’arcolaio
2005), Il sentimento dei vitelli (con Luca Minola, Edb 2012), Traum (Lietocolle
2015) e, recentemente, Nuova
poesia extraterrestre (Carteggi Letterari 2017). Colpisce la
precisione delle immagini, l’assenza di compiacimento e l’uso dosato dello
humour (e non della semplice ironia), qualità rare anche in poeti già
consolidati. Francesco Maria Tipaldi ci aiuta a dimostrare che la letteratura
può essere profonda senza essere noiosa. Si è inventato un nuovo, delizioso rococò, tra i
«culoni
delle contadine/dove finisce l’orto», con tanto di «lode
alle molli latrine dei maiali». Una
cadenza picara, materica, da giorno in cui «Dio presenta al mondo le sue lattughe». Il trauma è il tema centrale, che ritorna come in una cartella clinica
- il demente che «picchia
a sangue l’albero di pere». Le
storie si chiudono a volte in poche righe: «L’uva fragola sarebbe stata causa di enormi/terribili diarree/Lo
sapevano Nahum e i profeti tutti.//Le feci divennero molli/I ragazzi provarono
il sentimento dei vitelli». Gli
affetti non sono ingessati: «l’amore
non c’avrebbe salvato/l’amore mette le ortiche nelle mutande».
Tutto è depistante («quella
trave dove i topi non passano/è la mia casa»), gelatinoso, sottosopra: «francesco/maria cantare si deve al contrario/non avrai nostalgia, né
tantomeno/avrai ricordi». Un
autore raffinato che eccede la lirica e apre il monumento: «sbadiglia
ed ingoia rumore». La
mappatura amorosa prosegue per tentativi: «Puoi leccarmi se questo t’arreca piacere/ma non è modo d’amare/il nostro/noi
dovremmo fare un figlio, noi dovremmo/dare pane alla morte». In
fondo la vita biologica è «un
esercito scemo»,
tutt’al più «una
verza». Se
la voce da campo al paesaggio («parole
reali nello stesso posto»), il
tatto ha pure la sua importanza: «ti ho toccata come un cieco… avevi i capelli bagnati». Il
discorso sfida anche la morte, che si può leggere come significato: «il
nulla ci mangia nella mano/come fosse un cane». Un’abbondanza irriverente – immaginativa e
fonetica – che fa pensare a Lucio Piccolo: «e verranno in fila le fottute trombe/e sarà cielo
sanguinoso/dilatarsi,/entrerà nelle case e le rose/torneranno bocci//sarà
come essere tutti addormentati».
Chiudiamo, in ordine alfabetico, con un’altra donna, Mary
Barbara Tolusso, nata a Pordenone ma triestina e poi milanese d’adozione. Dal
1998 si occupa di critica teatrale e letteraria per i quotidiani. Ha pubblicato
le raccolte L’inverso ritrovato (Lietocolle 2003) e Il freddo e il crudele (Stampa 2012). Le poesie del primo libro si distribuivano seguendo l’impianto
della Recherche di Proust («ciascuno
ha la sua Combray/una madeleine che rotola il passato»), ma il materiale, la
forza di quei versi derivava da esperienze originali. Senza concessioni, spoglia e quasi risentita, la parola riesce a essere impietosa.
Decisamente
antiromantica - «Che vuoi che ti dica sotto/la coperta ruvida di un albergo a
ore?» - si muove tra «nuovissimi traffici» e «scabre adiacenze», accoglie il
tema relazionale per smontarlo con lucidità: «Gli innamorati si amano senza/alcun
merito… i loro occhi/vanno in coda all’infinito». Non disdegnando le «smorfie
dell’amore», le sue meravigliose combinazioni: «la zia col cognato,/la madre
col giardiniere». Non più per educande, l’io lirico «legge le pareti degli
orinatoi». Più che di tensione morale, dovremmo parlare di trazione estetica.
Una nitidezza che rende queste pagine un rifugio per il pensiero, in un
paesaggio «alla Van Dick». Le parole evitano «accuratamente la strada/della
tenerezza», ma la bellezza affiora nonostante la ruvidità, con «una grazia/insuperabile,
senza animo». È l’immaginazione stessa a strutturare la scena: «A casa non ci
sono/gatti, ribalte, mappamondi, ma vestiti di serie in armadi/di serie», o
quando «il sole slogava le tele». Tutto è plastico e definitivo: «la pelle
soda, rasata sul gonfiore. Dentro è tutto/un vuoto ben curato. Tengo il sesso
per un angolo.//(lei parla con la voce mozza e cretina dei corpi destinati al
massacro)». La morte è ganglio centrale: «Non che me ne importi molto, ma alle/dieci
di sera, alle tre, alle quattro del pomeriggio/arrivava sempre gente un po’
speciale./Nell’ufficio, intonacato di nuovo,/con la voce di grondaia li sentivo/fare
conti… Ma io dico che da qui, da questo preciso spazio/non ce n’è uno che parli
davvero, che queste/cose succedono agli altri».
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